Pasqua in Calabria: i riti da non perdere
Il Venerdì Santo in Calabria: riti, tradizioni e manifestazioni suggestive.
La Settimana Santa in Calabria, tra sacro e profano
Hai mai pensato di trascorrere Pasqua in Calabria? È il modo migliore per vivere il territorio in bassa stagione e conoscere alcuni degli aspetti più intimi e folkloristici della spiritualità calabrese e mediterranea.
Tra profumi, colori e sapori di primavera, i riti della Settimana Santa in Calabria sono intrisi di un fascino antico, capace di tenere assieme sacro e profano, coinvolgendo chiunque vi assista in un’atmosfera di comunità.
Da nord a sud della regione si tramandano tradizioni secolari che mettono in scena veri e propri momenti di sacralità tra uomo e natura, oltre a rievocare usi e costumi tipici di alcune tra le più importanti minoranze etniche del Sud Italia.
Tour in Calabria: Tour tra i borghi Arberesh
“Chi vive vede molto, chi viaggia vede di più.”
Pasqua arbëreshë
Tra i riti della Pasqua in Calabria quelli legati alle comunità italo-albanesi sono davvero imperdibili.
Questo non è il solito tour che trovate tra varie proposte,solite visite Frascineto e Civita,qui entriamo andiamo in piccoli paesi sconosciuti ,dove davvero si respira autenticità di queste etnie.
Gli albanesi giunsero in Calabria tra il XV e il XVIII secolo per sfuggire all’invasione ottomana delle loro terre di origine, concentrandosi perlopiù in provincia di Cosenza ma anche nelle altre province.
Il rito religioso seguito dagli albanesi è greco-bizantino. Visitare i paesi arbëreshë di Calabria in occasione della Settimana Santa (Java e Madhe) significa prendere parte attiva a uno dei momenti più importanti della comunità.
La Pasqua arbëreshë (Pashkët) è un evento sontuoso che culmina con le tradizionali le vallje, i balli caratteristici di vittoria e liberazione nei quali i danzatori indossano abiti tradizionali dai colori sgargianti (fucsia, oro e verde acceso), impreziositi da ori e gioielli.
Il rito dei vattienti
Tra i riti più “cruenti” della Pasqua in Calabria merita attenzione quelli dei vattienti (battenti/flagellanti) che si svolge in modo analogo in alcuni paesi della Calabria.
Le prime testimonianze del rito risalgono al Seicento e lo narrano pressoché immutato rispetto alla suggestione dei nostri giorni: il vattiente di Nocera Terinese indossa maglia e pantaloncini neri, lasciando le gambe scoperte per la flagellazione, che si svolge con due strumenti rituali: il cardo e la rosa.
Il primo è un pezzo di sughero nel quale sono conficcati 13 pezzi di vetro che rappresentano i 12 apostoli e Cristo; il secondo è un sughero liscio col quale si percuote più volte la pelle per predisporla al sanguinamento.
Il sangue, elemento sostanziale della Passione cristiana, sgorga copioso lungo le vie del corteo che accompagna la Processione della Madonna Addolorata del Sabato Santo. Simile il rituale di Verbicaro, che però si svolge il giovedì.
Assistere a queste forme di espiazione è un’esperienza forte (sconsigliata a chi è particolarmente sensibile e suggestionabile), che tuttavia racchiude una devozione antica, parte integrante dell’identità e del folklore locale.
Un tour in Calabria alla scoperta di antichi borghi in provincia di Cosenza proponendo alcune delle più importanti e tra i maggiori centri della comunità arbëreshë in Italia, in primis con Lungro che è la capitale religiosa degli italo-albanesi continentali, sede dell’Eparchia bizantina, che raccoglie sotto la propria giurisdizione tutte le comunità albanesi continentali che hanno conservato il rito bizantino. L’antica lingua albanese, i riti religiosi orientali e i tipici costumi della cultura d’origine sono tramandati e conservati gelosamente.
Posto a cavallo tra Basilicata e Calabria, il Parco Nazionale del Pollino, la più grande area protetta in Italia, fa parte della Rete Europea e Globale dei Geoparchi Unesco. Il vasto territorio ricco di biodiversità e bellezze paesaggistiche e architettoniche, custodisce tradizioni millenarie e antiche culture come quella arberësche. Giunti nel territorio calabro-lucano tra il 1470 e il 1540, gruppi di profughi albanesi raggiunsero le coste italiane, per sfuggire all’esercito turco-ottomano che aveva conquistato l’Albania nella sua espansione nei territori balcanici. Nacquero così i paesi di Acquaformosa, Civita, San Demetrio Corone, Lungro, Frascineto ed altri minori legati alle proprie tradizioni, ai costumi e alla lingua, che questo popolo è riuscito a salvaguardare nei secoli.
San Demetrio Corone, capitale della cultura arberëshë
San Demetrio Corone (Shën Mitri in lingua arbëreshe) è un piccolo borgo in provincia di Cosenza che sorge sulle colline dalla pianura di Sibari, a ridosso della Sila Greca.
Riconoscibile dai tetti rossi che sembrano voler ricongiungersi al colore della terra che lo circonda, il borgo di San Demetrio Corone conserva ancora parte della sistemazione originaria.
Gli abitanti locali paiono non preoccuparsi del tempo che passa e continuano a custodire i tesori della cultura arbëreshë, solo a tratti contaminata da quella calabra.
L’arte, l’iconografia, la lingua, la cucina, tutto ci parla di una cultura antica, quella Arbëreshe, che prende il nome da Arbër, un importante principato albanese del periodo medievale: dai piatti tipici alle funzioni di rito greco-bizantino, dalle celebrazione dei matrimoni alle danze, ai balli e ai costumi tipici, la cultura tradizionale è talmente radicata che, ancora oggi, è possibile respirarla appieno anche nelle melodie dei canti e nella musica. Oggi vi conduciamo alla scoperta di alcuni di questi borghi dove musei della Civiltà Arbëreshe, nati come centro di studio di questa etnia, conservano i costumi tipici, oggetti, attrezzi, documentazioni fotografiche e rappresentazioni dell’arte greco-bizantina espressa nell’iconografia. Una vera e propria immersione nel mondo unico e affascinante della cultura Arbëreshe.
Costumi tradizionali calabresi: storia e musei da visitare
Viaggio affascinante alla scoperta dei costumi calabresi e delle comunità che li indossano
La Passione vivente di Terranova da Sibari, candidata ad essere Patrimonio Unesco
Partenza: 18 al 22 aprile 2025
Durata: 5 giorni 4 notti
In treno e aereo in tutta Italia.
Quota a persona in camera doppia €
Suppl. Singola €
Itinerario di Viaggio
1 GIORNO 18 aprile- ROMA –LAMEZIA TERME-TARSIA
Ritrovo dei partecipanti presso la Stazione Termini ,e partenza in direzione Lamezia Terme in treno. Arrivo e trasferimento in hotel a Tarsia,per il pranzo e assegnazione delle camere.
PS.Per coloro che arrivano in aereo,ritrovo all’aereoporto di Lamezia Terme.
Partenza in direzione di Cassano allo Ionio per assistere alla processione del Venerdi Santo dei Vattienti.
La processione del Venerdì Santo a Cassano allo Jonio, in provincia di Cosenza, è uno dei momenti più emblematici dei riti della Settimana Santa in Calabria.
Una solenne processione, molto antica, che porta per le strade del paese la passione, la morte e la Resurrezione di Cristo, seguita da una folla immensa di fedeli.
In processione sfilano le “varette”, statue di cartapesta che rappresentano il mistero di Cristo legato alla colonna, coronato di spine, che prega nell’orto, deposto dalla croce, morto nella bara, asciugato dalla Veronica, Pilato, Giuda, la Maddalena, e i “disciplìni, incappucciati per voto, spesso scalzi che si battono con catene e corde, per penitenza.
I Flagellanti di Cassano all’Ionio.
A differenza di tutti gli altri casi citati, il rituale pasquale di Cassano all’Ionio si divide in due giornate: Giovedì e Venerdì Santo. Nella prima giornata all’interno della Cattedrale si officia la “Predica di Passione”, seguita da una cerimonia, conosciuta come “Chiamata della Madonna”, in cui viene posto tra le braccia della Vergine il figlio crocifisso. Durante il Venerdì Santo, invece, ha luogo la “Processione dei Misteri” che dura tutta la giornata e all’interno della quale viene rappresentata la Passione di Cristo. Il corteo è seguito dai flagellanti, vestiti di bianco e incappucciati per mantenere l’anonimato, che si percuotono con funi o catene in segno di dolore. Tutta la cerimonia è accompagnata da un lamento eseguito dalle donne del paese che scortano la statua della Vergine. Oltre ai penitenti, un’altra particolarità di questa processione è costituita dalla sfilata dei “misteri” o “varette”, statue di cartapesta raffiguranti la Passione di Cristo, e dagli strumenti musicali utilizzati la troccola (cassa armonica di legno su cui battono dei martelletti) e la buccina (strumento a fiato).
Queste processioni, così come le prime di cui vi abbiamo parlato, oltre ad essere suggestive e ad avere un gran valore simbolico, meriterebbero di essere oggetto di studi più approfonditi, perché esse costituiscono per tutti noi un patrimonio inestimabile non solo dal punto di vista storico, ma anche religioso, folkloristico e antropologico.
Ci sposteremo a Terranova di Sibari,dove contemporaneamente si svolge la processione della Passione di Gesu’.
Il borgo diventa un palcoscenico a cielo aperto dove si rivive interamente la Via Crucis accompagnata dai secolari canti in dialetto terranovese .
Una vera e propria tragedia cantata da tutti i personaggi che presero parte alla vicenda di Gesù prima, durante e dopo la Crocifissione.
I canti iniziano sette giorni prima della Domenica delle Palme, quando il simulacro della Vergine viene spostato dalla chiesa di San Francesco a quella del Purgatorio. Comincia così la Settina dell’Addolorata, i sette giorni in cui la sera, i fedeli intonano le lamentazioni, una sorta di rosario musicato. Verrà poi ripreso durante la processione del Venerdì Santo, il canto della durata di un’ora, spezzettato ed intonato ad ogni stazione.
Proprio la processione vivente, porta Terranova all’attenzione dell’Unesco,perché dal 1970, sotto l’egida di Alfredo Veltri presidente dell’allora Centro di cultura popolare, questa rappresentazione viene fatta da persone che interpretano l’intera passione. Dopo una battuta d’arresto, l’Associazione del Gruppo Folk Sacro del Venerdì Santo nel 1978, riprende la tradizione e la rende ancora più suggestiva.
Un momento di intenso pathos, tutti ne restano affascinati e coinvolti. Si possono ammirare trecento tra comparse e attori, vestiti con abiti del tempo, che variano, dal soldato romano ai sacerdoti del tempio. Ponzio Pilato che interagisce con Gesù e la popolazione di Gerusalemme.
Rigorosamente di sera, al freddo, lo scenario rimane integro, coinvolgente, ove i canti in dialetto terranovese commuovono, anche senza capirli. E poi il calvario e la crocifissione, tutto riproposto così come se si fosse davvero presenti al momento descritto nelle Sacre Scritture.
E’ questo il Patrimonio immateriale Unesco da salvaguardare, che unito alla Processione dei Misteri risalente al 1700, ove si possono vedere le 13 statue lignee sempre settecentesche, tra cui quella degli giudei e di Ponzio Pilato, sfilare per tutto il paese lascia per sempre tracce nella memoria di chiunque assista alla cerimonia.
Il modello storico di riferimento della Passione Vivente di Terranova da Sibari è l’antica Processione dei Misteri, risalente agli inizi del 1700, durante la quale venivano portate in processione 13 statue lignee, tra le quali quelle dei Giudei. Tale evento si è protratto fino agli inizi del 1900: a testimonianza di ciò esistono documenti fotografici risalenti al periodo tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900; qui, oltre al gruppo ligneo dei Giudei, appare la statua del governatore Ponzio Pilato. La Passione Vivente, dapprima nata in sordina, negli anni cresce fino a diventare un appuntamento fisso. Nel 1977 la Rappresentazione viene organizzata dalla Pro Loco “Thurium Novum” per cedere il passo poi, a partire dal 1978, al gruppo “Folk-Sacro Venerdì Santo” (più tardi divenuto Associazione).
Un ulteriore, importante contributo giunge dal gruppo religioso facente parte della Gioventù Francescana. La Passione Vivente nei suoi primi anni di vita ha convissuto con un altro rito, quello dei #vattienti# o battenti, che è stato definitivamente soppiantato dalla Sacra Rappresentazione, forse a causa del mutamento culturale e sociale che il paese ha attraversato a partire dagli anni ’60 del secolo scorso. Negli anni ’80 la Rappresentazione si arricchisce della Processione delle Palme, che viene migliorata nei dettagli e nei costumi col passare degli anni. Gli anni ’90 sono i più significativi: la Rappresentazione si arricchisce di nuovi costumi e nuove scenografie e viene così ricostruita la città di Gerusalemme fuori dalle mura. Dagli anni ’90 del secolo scorso al 2015 si assiste a un graduale miglioramento della Rappresentazione, sia dal punto di vista scenico (costumi, scenografie, audio) sia dal punto di vista della drammatizzazione (gli attori vengono affiancati, nella loro preparazione, da esperti di teatro)
La cena sarà effettuata a Terranova in modo da poter essere già sul posto per assistere alla processione.
Rientro in hotel al termine della processione del Venerdi Santo.
2 GIORNO 19 aprile – TARSIA -SAN DEMETRIO CORONE – MACCHIA ALBANESE – TARSIA
Dopo colazione partenza per San Demetrio Corone e accoglienza dell’Amministrazione Comunale presieduta da sindaco Ernesto Madeo San Demetrio Corone (Shën Mitri in lingua arbëreshe), tra i centri culturali più importanti della comunità Albanese Italiana, è un piccolo borgo calabrese in provincia di Cosenza che sorge sulle colline dalla pianura di Sibari, a ridosso della Sila Greca.
Considerata la Capitale della cultura arberëshë, San Demetrio si estende su un fertile pendio disseminato di uliveti, gelsi e castagni. Il borgo, nel complesso, presenta caratteristiche morfologiche simili a quelle di altri paesi arbëreshë della Calabria. In questo centro gli albanesi giunsero dopo il 1468 per sfuggire all’invasione della loro patria da parte dei Turchi, rifugiandosi nei territori della principessa Irene, principessa di Bisignano e figlia del mitico eroe Scanderbeg.
Attraversato da mille vicoli tortuosi che si diramano per condurre a sorprendenti sheshiet (slarghi), il paese ospita antiche chiese e splendidi edifici gentilizi. Gli abitanti locali paiono non preoccuparsi del tempo che passa e continuano a custodire i tesori della cultura arbëreshë solo a tratti piacevolmente contaminata da quella calabra. Benché si tratti di un piccolo borgo, l’identità etnica arbëreshe è dominante e ancora viva. Si conservano ancora la cultura, le tradizioni, la lingua, il rito Bizantino e i costumi tradizionali coloratissimi. Inoltre San Demetrio Corone è sede del Collegio Italo-Albanese di Sant’Adriano, un importante organismo religioso e culturale per la conservazione del rito orientale, delle tradizioni e del patrimonio identitario arbëreshe. Il borgo custodisce uno degli edifici dei secoli XI-XII tra i più preziosi della Calabria: la Chiesa di Sant’Adriano, un autentico capolavoro, luogo di virtuosismi plastici e spirituali dove eleganza e bellezza si fondono in un’estetica misteriosa e assieme seducente.
Benché si tratti di un piccolo borgo (conta poco più di 3.000 abitanti) qui l’identità etnica arbëreshe è dominante e ancora viva. Si conserva, infatti, ancora la cultura e le bizzarre tradizioni, la lingua, il rito Bizantino e costumi coloratissimi. Inoltre San Demetrio Corone è sede del Collegio Italo-Albanese di Sant’Adriano (un importante organismo religioso e culturale per la conservazione del rito orientale, delle tradizioni e del patrimonio identitario arbëreshe). Questo grazioso paesino presilano custodisce uno degli edifici dei secoli XI-XII tra i più preziosi della Calabria: la Chiesa di Sant’Adriano di San Demetrio Corone, un autentico capolavoro, luogo di virtuosismi plastici e spirituali dove eleganza e bellezza si fondono in un’estetica misteriosa e assieme seducente .
La Chiesa di Sant’Adriano
La Chiesa è un capolavoro d’arte dell’XI e XII secolo e potrebbe rappresentarsi come chiave per consentire l’accesso al tipico universo etno-antropologico arbëreshe di San Demetrio. La Chiesa di Sant’Adriano fu fondata da San Nilo di Rossano, monaco basiliano, eremita e forse il maggior personaggio del monachesimo calabro-greco, che nel 955 edificò in questo luogo una Chiesetta dedicata ai martiri Adriano e Natalia per istituire un cenobio non troppo distante dal villaggio. La Chiesa non ha mantenuto l’originaria unità strutturale e architettonica, tuttavia mostra linguaggi e messaggi stilistici differenti, che evidenziano una raffinata eleganza che spazia tra il mostruoso, il misterioso e il fantastico. L’accesso alla Chiesa è dato da due ingressi laterali, quello principale posto al di sotto del grosso campanile in pietre e mattoni, mentre l’altro è denominato Porta dei Monaci perché consentiva l’accesso alla Chiesa dei monaci dall’attiguo Collegio italo-albanese con stipiti in marmo e due mascheroni in pietra. All’interno le tre navate sono a copertura lignea e quattro arcate fiancheggiano la navata centrale sorrette da colonne antiche e da pilastri di fabbrica.
Le pareti sono affrescate con raffigurazioni di Santi databili tra il XII e il XIII secolo, mentre nell’abside è visibile una scena di un più ampio ciclo, la Presentazione di Maria al Tempio. In fondo alla navata centrale è collocata una cupola barocca dove è raffigurato il Creatore con Santi monaci, Suore e San Nilo in preghiera davanti al Cristo in Croce e la mano destra protesa nell’atto di benedirlo. L’autentico capolavoro della Chiesa è il pavimento (realizzato tra il XII e il XII sec.) parte in opus sectile e parte in mosaico. I quattro mosaici, eseguiti da mani esperte, rappresentano figure di animali fantasiose e suggestive. Sempre all’interno della chiesa sono conservati interessanti reperti scultorei di epoca normanna e i due capitelli delle colonne, uno bizantino, l’altro corinzio.
Non può mancare una passeggiata nel borgo antico tra vicoletti e palazzi nobiliari.
Dopo una pausa caffè nella piazza centrale visiteremo il Museo Civico e di Arte Moderna e il Museo delle Macchine d’Epoca
Dopo le visite, pranzo in un rinomato ristorante con esperienza a base di suino nero di Calabria DOC la cui azienda visiteremo nel pomeriggio. Le carni pregiate di Suino Nero sono notoriamente ricche di Omega 3 e di acido oleico. L’alimentazione del suino è naturale, perché vede il maiale nutrirsi di erbe e ghiande nelle selve, fonte dei preziosi grassi insaturi.
Nel pomeriggio ci trasferiamo a Macchia Albanese, a poca distanza, dove visiteremo l’azienda Madeo percorrendo la storia dell’Azienda che è una Filiera Agroalimentare nata dall’intuizione di un giovane imprenditore Ernesto Madeo di creare il primo allevamento di suini. Tutti i prodotti, dai cereali per i suini fino alla spezie che insaporiscono i salumi, provengono dal sistema organizzato di Filiera 100% calabrese e realizzati con solo materie prime locali e naturali.
La Calabria è la regione italiana con il maggior numero di comuni arbëresh. Macchia Albanese, Makji in arbëreshë, frazione del comune di San Demetrio Corone, è un borgo della Presila Greca situato a 418 metri di quota s.l.m. nei pressi del torrente Due Mulini, fondato nel 1400 da coloni albanesi provenienti dall’Albania e dalla Grecia. Nel comune di Macchia Albanese visiteremo la Chiesa Santa Maria di Costantinopoli seguita da una passeggiata tra i vicoletti del borgo fino al palazzo “La Casa De Rada” appartenuta allo scrittore più importante della cultura Arberesh Girolamo De Rada per questo motivo è una struttura d’interesse storico-regionale, poiché culla della cultura italo-albanese. Alla casa si accede per mezzo di un antico cortile, alla cui entrata si trova lo stemma della Famiglia De Rada.
Terminiamo la passeggiata a piedi con la vista panoramica mozzafiato sulla costa jonica e Sila Greca .
Nel borgo è presente una Prosciutteria Madeo, dove avremo la possibilità di altri acquisti o tempo per bere un caffè, o un amaro o assaggiare il tartufo al gelato di Pizzo .
Rientro in hotel cena e pernottamento.
3 GIORNO 20 aprile (Pasqua) –TARSIA – LUNGRO – ACQUAFORMOSA – FIRMO-TARSIA
Dopo la colazione di hotel partenza per Lungro fondato dai profughi albanesi nella seconda metà del XV secolo, oggi importante punto di riferimento per l’intera comunità albanese italiana, vera e propria capitale religiosa e sede dell’Eparchia di rito greco-bizantino (arbëreshë).
Il centro abitato richiama la tradizione orientale nella struttura circolare degli edifici, raccolti attorno alle due piazze centrali e dislocati nelle tipiche gjitonia (vicinati), nuclei sociali con regole proprie. Al busto del patriota albanese, Giorgio Castriota Scanderberg, è riservato il posto d’onore al centro della piazza principale. L’anima di Lungro risiede nelle sue tradizioni antiche e nelle suggestive feste religiose, dai riti della Settimana Santa Arbëreshë (Java e Madhe) e di Pasqua (Pashkëvet), al celebre Carnevale (Karnivalli), in occasione delle quali le vie del paese si animano di costumi tradizionali, balli, canti e parate. Qui visitiamo la Cattedrale di Lungro e assisteremo alla messa Greco/Bizantina che risale al XVIII secolo è rappresenta la principale chiesa dell’Eparchia di Lungro.
Nonostante gli arbëreshë siano di religione cattolica, in gran parte delle comunità italo-albanesi di Calabria, da più di 4 secoli, si segue il rito greco similmente ai fratelli orientali greco-ortodossi. Agli inizi del nostro secolo, il Vaticano rivolse una maggiore attenzione alla situazione dei fedeli di rito greco per le continue richieste da essi avanzate per la nomina di un vescovo greco in Calabria e di un altro in Sicila, con pieni poteri territoriali.
“….. conclusione del rito ci si ritrova tutti davanti al portone della Chiesa Madre, dove alcuni volontari nel corso della giornata hanno accatastato tronchi d’albero, tavole di legno e ogni genere di materiale e così a mezzanotte si procede all’accensione della “qerradonulla” (grande falò). Al momento dell’accensione si esegue il canto greco “Christos Anesti” (Cristo è Risorto). Una caratteristica funzione liturgica si svolge la Domenica di Pasqua: il sacerdote con la croce in mano, seguito da questi ultimi, si ferma all’esterno della chiesa, davanti alla porta principale, batte la croce per tre volte sulla porta, ripetendo la formula liturgica del rito bizantino-greco “Aprite le porte”. All’interno della chiesa la forza del male, il demonio (djallthi) con voce cavernosa, chiede chi è che bussa alla porta; alla risposta che è il Signore risorto, le porte si spalancano al terzo colpo. E mentre il demonio scompare, tra scoppi di mortaretti e stridore di catene, il sacerdote seguito dai fedeli entra in chiesa dove ha inizio il ”Mattutino”. Questa cerimonia che simboleggia la Risurrezione della morte, segna la fine della Settimana Santa.
L’attuale edificio è del 1721, dopo che un terremoto distrusse la Chiese preesistente. La Cattedrale presenta una pianta basilicale romanico-barocca, a tre navate, con ampia abside e cupola centrale. Ricca di mosaici, icone e affreschi bizantini: il mosaico del Pantocrator copre l’intera superficie della cupola centrale. Nella Sacrestia è costituito un frammento di affresco che raffigura Santa Parasceve (XII secolo), insieme a preziose tele di scuola napoletana e statue lignee di pregevole fattura. Di notevole fattura artistica sono le tre porte in bronzo con altorilievi realizzati con la tecnica a cera persa dallo scultore calabrese Talarico, che rappresentano scene del Vangelo.
A seguire una passeggiata tra i vicoletti del centro storico di Lungro e la visita allo Storico Museo delle Saline di Lungro che si articola su nove sale, ciascuna delle quali è intitolata a una galleria della Miniera. Il Museo espone nei dettagli la realtà dell’antica Salina, con l’ausilio di pannelli descrittivi e raffigurativi con cenni storici sul sito minerario.
In estate viene organizzato il «Salgemma Lungro Festival».
Il Festival pone al centro il Comune di Lungro, la sua storia e territorialità, partendo dalla miniera di Salgemma che ha rappresentato per millenni la più grande ricchezza di quasi tutta la piana di Sibari.
Proprio il sale, veniva esportato in tutta la Calabria, in parti dell’Italia e fino in Europa. Il «Salgemma Lungro Festival», voluto dall’amministrazione comunale e realizzato da Piano-B, intende ripartire proprio da qui, proponendo attività culturali ed artistiche collegate tra loro dal «Sale» come elemento di vita, sostenendo il territorio e il suo indotto economico e contribuendo a fornire un’offerta turistica di qualità.
Si prosegue poi in direzione di Acquaformosa comune di 1115 abitanti collocato ad un’altitudine di 756 metri s.l.m., e anch’esso fa parte della minoranza linguistica arbëreshë in quanto fu fondato dai profughi albanesi, come molti altri centri lucani e calabresi del parco dove le tradizioni arbëreshë sono ancora fortemente radicate (es. le “Vallje”, danze in costume tradizionale albanese durante il Carnevale). Sono da visitare i resti del Monastero dei Cistercensi del 1195, la Chiesa di San Giovanni Battista, la Chiesa della Concezione e quella dell’Addolorata.
Arrivati ad Acquaformosa troviamo la Chiesa di San Giovanni Battista, costruita dagli albanesi all’incirca nel 1500. Sono evidenti gli elementi dell’architettura romanica ma agli occhi appaiono subito gli imponenti i mosaici della chiesa ad opera dell’artista locale Biagio Capparelli. L’interno infatti è interamente mosaicato con tessere dorate e policrome intagliate a mano. Nella navata laterale destra sono raffigurate le scene dell’Antico Testamento, nella navata centrale il Nuovo Testamento. Anche l’iconostasi è stata recentemente realizzata in mosaico, come l’intera Chiesa. Nella cripta vengono preziosamente custoditi alcuni ornamenti appartenuti alla ricca Abbazia Cistercense del 1200 insieme alla Madonna della Badia (1400), antichi e preziosi oggetti appartenenti alla Chiesa e l’Assunta risalente al 1520.Sul lato orientale della navata centrale vi è una parte sopraelevata, è il solea, che è il luogo della comunione dei fedeli, oltre il solea, divisa dall’iconostasi, che letteralmente significa luogo delle icone, su un piano ancora superiore si trova l’Altare dove si accede attraverso la Porta Regale. All’interno dell’altare si erge la Tavola Santa che, per mistica trasposizione, raffigura il Signore stesso. Il transetto separa il vima dal resto della chiesa. Il braccio del transetto a nord è coperto da volta a botte e da l’accesso alla cripta, mentre nel braccio a sud si innalza il campanile. La parola “icona” deriva dal greco, eikwn (eikon), e significa immagine.
I bizantini indicano con questo nome ogni raffigurazione del Cristo, della Madonna, dei Santi L’icona non si dipinge, si scrive, perche in essa è la parola di Dio scritta con l’immagine mediante un linguaggio comprensibile. L’icona si scrive, l’icona si legge. Chi la osserva legge e si chiede perché è stata scritta e la risposta è, per essere letta e testimoniare l’invisibile , sostenere la nostra fede e speranza, aiutarci a pregare e trasfigurarci nella carità. Qui sei rapito dalla loro bellezza estetica, qui il cuore ti si trasforma. Una scuola dove allenare il proprio Spirito è questa Chiesa di San Giovanni Battista di Acquaformosa. Nel 1989 un’idea di Padre Vincenzo Matrangolo, ispirato dallo Spirito, si sta realizzando grazie al maestro mosaicista di Acquaformosa, Biagio Capparelli, aiutato da discepoli di Acquaformosa. Entri in questa Chiesa e ti meravigli per tanto splendore; sei rapito dal visibile e, con l’aiuto dello Spirito, vuoi arrivare all’invisibile. Il rito bizantino, detto anche rito costantinopolitano, è il rito liturgico utilizzato (in diverse lingue) da tutte le Chiese Ortodosse d’Oriente e da alcune Chiese sui iuris di tradizione orientale all’interno della Chiesa cattolica. Nonostante gli Arbëreshë siano di religione cattolica, in gran parte delle comunità italo-albanesi di Calabria, da più di 4 secoli, si segue il rito greco come i fratelli orientali greco-ortodossi.
Pranzo di Pasqua in ristorante, una trattoria con una location meravigliosa e con intrattenimento musicale per un tipico pranzo pasquale di specialità calabresi.
Dopo pranzo raggiungiamo un l’ultimo borgo della giornata: Firmo dove effettueremo la visita a piedi del borgo con il Museo della civiltà contadina di Firmo
Nel cuore montano della Calabria il piccolo comune di Firmo sorge su una collina ai piedi della piana di Sibari e custodisce tradizioni arbëresh (l’antico albanese), ma anche le tradizioni ed il rito greco-bizantino. Prima della venuta dei profughi albanesi, il territorio era un feudo disabitato che apparteneva ai principi di Bisignano ed ai Padri Domenicani di Altomonte. Il territorio era suddiviso in due zone: Firmo Soprano e Firmo Sottano. Firmo Sottano o Inferiore, sarebbe stato edificato da profughi albanesi intorno al 1485 quando scapparono dall’Albania a causa dell’occupazione dei Turchi Ottomani e dato in signoria ai Padri Domenicani di Altomonte. Firmo Soprano invece nasce il 6 Settembre 1502 quando Don Berardino Sanseverino, Principe di Bisignano, cedette ad Alessio Comite un podere comprendente anche la contrada Foresta, perché vi edificasse un villaggio. Nel 1811 i due abitati vennero giuridicamente unificati in un unica comunità anche se la delimitazione tra le due aree continua ad essere simboleggiata da un arco detto “Ka Markasati” e da evidenti tratti del tessuto urbano ed architettonico delle due aree.
Il piccolo borgo è caratterizzato da una zona centrale dominante del paese dove ha sede l’antico Convento dei Domenicani punto di riferimento storico per la valorizzazione delle tradizioni della civiltà contadina e della cultura degli arbëreshë.
Firmo offre una grande varietà di punti d’interesse : la parrocchiale di santa Maria Assunta in Cielo, edificata intorno al XIX secolo; la Grancia del Convento dei Domenicani costruita alla fine del XV secolo dai Padri Domenicani di Altomonte, recentemente restaurata; il Palazzo Giuseppe Martino; la Piazza Giorgio Castriota Scanderbeg.
Rientro in hotel dove effettueremo la cena e pernottamento.
4 GIORNO 21 aprile- TARSIA – GUARDIA PIEMONTESE-SAN MARCO ARGENTANO-TARSIA
Dopo la colazione in hotel partenza per Guardia Piemontese che è la località di turismo termale più famosa della Calabria e del meridione d’Italia, grazie alla presenza su di una parte del territorio delle famose Terme Luigiane. La Città è stata popolata a partire dal XII secolo da coloni prevalentemente valdesi provenienti dal Regno d’Arles, dalla Provenza, dal Delfinato e dalle valli occitane del Piemonte ed ha la particolarità di essere un’isola linguistica occitana del meridione italiano.
Chiamata La Guardia per via della torre arroccata su una collina che affacciava sul mare e che, appunto, serviva da guardia per eventuali avvistamenti di navi turche, successivamente fu ribattezzata Guardia Piemontese in ragione dell’immigrazione di una piccola comunità occitana dal Nord Italia . Arrivati nel centro storico effettuiamo la visita del Museo Occitano e della chiesa Valdese terminando con una passeggiata nel borgo Occitano dove vedremo la Torre di Segnalazione e la splendida vista panoramica Il centro storico si articola in numerosissimi vicoli con pavimentazione in pietre. La sua torretta di avvistamento, facilmente ravvisabile anche dal “paese marino”. La Chiesa di S. Andrea apostolo è dedicata al Patrono di Guardia Piemontese con un interessante portale di tufo sormontato dallo stemma di Guardia Piemontese La Torre mentre la Chiesa del Santissimo Rosario, ex convento dei Domenicani fondato dai domenicani nel 1600 e consacrato nel 1616. Di notevole pregio artistico è l’antico coro ligneo, scolpito a mano alla metà del XVII secolo. Esso è composto da 33 scanni, divisi in due ordini di posti: 21 superiormente e 12 più in basso. I braccioli degli scanni rappresentano figure femminili. I pannelli, meravigliosamente scolpiti, sono divisi da alte colonne.
Ci spostiamo per vedere lo “ Scoglio della Regina”chiamato cosi per una leggenda che narra di un Re, caduto sotto incantesimo, non fosse mai soddisfatto delle sue vittorie e cercasse un modo per essere finalmente appagato. Questa sua inquietudine lo portò a partire per un’altra battaglia. Il Re giurò alla moglie che questa sarebbe stata l’ultima. Prima di partire le disse di guardare sempre verso l’orizzonte perchè il suo ritorno sarebbe stato anticipato da un luce rossa nel cielo. Il tempo passava e nessuna notizia del Re venne riportata alla Regina. Un giorno la sovrana, cercando disperatamente di vedere il Re all’orizzonte, si arrampicò sullo scoglio; una volta in cima, cercando di guardare sempre più lontano, perse l’equilibrio e scomparve tra le onde.
Infine effettueremo un assaggio al Gelato artigianale e alla pasticceria locale con degustazione della confetteria e dei prodotti enogastronomici del territorio(non incluso).
Pranzo di Pasquetta.
San Marco Argentano, sulla strada dei normanni.
San Marco Argentano si trova nel cuore della provincia di Cosenza, non lontano da mete molto famose come la Riviera dei Cedri e la costa ionica cosentina, a pochi chilometri dalle Terme Luigiane e di Spezzano Albanese: si trova infatti sulla via istmica che collega lo Jonio al Tirreno. San Marco Argentano è definita la “città più normanna” della Calabria: anticamente conosciuta come Argentarum, è un centro urbano dalla storia molto antica, e per il suo patrimonio storico-artistico è considerata uno dei più importanti centri culturali della provincia di Cosenza. San Marco Argentano è stata abitata sin dal VIII secolo a.C. e per tutto il medioevo; uno degli avvenimenti che hanno lasciato più tracce in questo territorio fu sicuramente la conquista da parte di Roberto il Guiscardo, che nel 1048 la assediò e la trasformò in città fortificata. I normanni valorizzarono il luogo per la sua posizione strategica, e contribuirono allo sviluppo della città che divenne un grande cantiere dove si trovavano maestranze bizantine, arabe, longobarde e aragonesi impegnate nella costruzione delle principali opere. L’impianto urbanistico del centro storico è infatti indubbiamente di impronta normanna: è caratterizzato da stretti vicoli e sono presenti archi di stile bizantino. Con questo itinerario visiteremo le importanti testimonianze del periodo normanno e del basso Medioevo: la Cripta Normanna, dell’ XI secolo; il Convento della Riforma, del XIII secolo; la Torre del Guiscardo, del XIII secolo.
Cominceremo con la visita guidata della Cattedrale di San Nicola: di fondazione normanna, per molto tempo ha conservato l’impianto originale per poi subire integrazioni barocche tra il XVII e il XVIII secolo. Danneggiata dai terremoti del 1905 e del 1908, venne ristrutturata e nel corso dei lavori tornò alla luce la sottostante cripta normanna, risalente all’XI secolo. La cripta per molti secoli fu utilizzata come luogo di sepoltura di vescovi ed ecclesiastici e poi praticamente dimenticata: venne quindi risistemata rimuovendo le sepolture e le divisioni interne e adesso è conservata nel suo stato originario. Spesse mura, possenti arconi e campate la rendono un luogo austero e dal fascino peculiare.
La Torre Normanna del Guiscardo, detta anche di Drogone, risale al XIII secolo; ha mantenuto il suo impianto difensivo originale ed è caratterizzata dalla struttura a forma di grande tronco di cono detta“motta”. E’ suddivisa in cinque piani sovrapposti definiti sale: la Sala delle Granaglie, al piano sotterraneo; la Sala delle Prigioni, al primo piano; la Sala delle Armi, al secondo piano; la Sala delle Udienze, al terzo piano e infine la Sala del Principe, al quarto piano. Tutti i livelli sono visitabili, le stanze, le gallerie, le segrete, le vie di fuga sono avvolte dal fascino misterioso della storia, permettendo quasi un viaggio indietro nel tempo, nel medioevo. Tra magia e folklore, tanti sono i detti e le leggende che riguardano i personaggi vissuti in questo luogo: una di queste racconta che le ragazze, nel pronunciare il nome di Sikelgaita, seconda moglie di Roberto il Guiscardo, sentano sfiorarsi la pelle o i capelli.
Si raggiungerà poi il Complesso Monastico di Sant’Antonio o dei Riformati, uno tra i più antichi esempi di architettura francescana in Calabria. Avendo subito nel tempo varie modifiche e trasformazioni, rimangono ad oggi, del periodo francescano, solo il campanile a vela, l’ingresso ed il coro ligneo. San Francesco da Paola dimorò qui dal 1429 al 1430, come indica la piccola cappella votiva all’interno della Benedetta, il piccolo giardino dove il Santo era solito pregare e la piccola finestra della cella dove il Santo dimorava.
Termineremo l’itinerario a San Marco Argentano passeggiando lungo le vie del centro storico per ammirare anche gli ottocenteschi palazzi signorili, oltre ad esempi di opere di epoca normanna, come la Fontana di Sikelgaita.
Come in altre realtà calabresi, anche a San Marco storia, cultura e tradizione si fondono in un originale percorso del gusto, un viaggio sensoriale di sapori e profumi che valorizza le eccellenze prodotte sulle terre e nelle aziende locali, rendendo protagonisti della lavorazione e della produzione delle tipicità locali. Come i pupazzi arraganati, senza dubbio, uno dei più celebri piatti della tradizione locale: peperoni (dolci o piccanti) essiccati d’estate al sole intrecciati in “filare” e fritti poi d’inverno in olio bollente. Caratteristica peculiari di questo piatto è l’inimitabile croccantezza.
Rientro in hotel dove effettueremo la cena e pernottamento.
5 GIORNO 22 aprile- TARSIA – CIVITA – FRASCINETO – RIENTRO A ROMA
Il paese arbëreshë del Museo del Costume e delle Icone Bizantine
Dopo la Colazione in hotel ,rilascio delle camere,e partenza direzione di Frascineto anch’esso centro arbëreshë che conserva ancora la lingua, la cultura, le tradizioni e le funzioni religiose del rito bizantino .
Come tutti i centri abitati di origine arbëreshë, anche Frascineto presenta inconfondibile assetto urbano in forma di gjitonìe: i quartieri fatti di case piccole, disposte a semicerchio, che affacciano su una piazzetta comune, centro pulsante della convivialità di quartiere. Gli albanesi di Calabria custodiscono con tenacia la propria identità culturale attraverso costumi, lingua, religione e gastronomia.
Il Museo rappresenta uno strumento di conoscenza della tradizione italo-albanese di alcune comunità in Calabria. Espone la vasta collezione dell’Archimandrita Paolo Lombardo attraverso un percorso dedicato all’arte, alla spiritualità e alla liturgia bizantina che si sviluppa all’esterno e all’interno della struttura. All’esterno è possibile visitare i luoghi quotidiani della fede e della vita delle comunità albanesi, quali la Chiesa dell’Assunta e la Chiesa di San Pietro, elevata a Monumento Nazionale.
All’interno, invece, il percorso si sviluppa sui tre piani: al primo piano, si introduce il visitatore al mondo bizantino, al secondo sono esposte le icone, mentre al terzo sono custodite alcune antiche icone russe in bronzo, arredi sacri e paramenti liturgici, oltre a rare edizione di libri dal XVIII al XX secolo. All’ingresso, 280 medaglie celebrative pontificie e della Zecca dello Stato, accompagnate da una spiegazione sulle fasi di creazione e confezionamento.
Uno dei modi più affascinanti di scoprire la Calabria è un viaggio alla scoperta dei costumi calabresi tradizionali. Un mondo fatto di colori vivaci, tessuti pregiati e dettagli artigianali che raccontano secoli di storia e cultura.
Osservare da vicino la bellezza dell’abito tipico calabrese e le peculiarità che lo distinguono da un Comune all’altro significa leggere la storia stessa delle comunità che lo indossano, l’abilità manuale delle donne che, ancora oggi, confezionano i vestiti tradizionali calabresi per le occasioni di festa e visitare alcuni imperdibili musei del costume e del folklore.
Spesso, la storia e la foggia dei costumi calabresi è espressione delle minoranze etnolinguistiche che tuttora li vestono con orgoglio, portando addosso simboli, ricami e colori che sottendono significati antichi.
Storia dell’abito tipico calabrese
Se si pensa all’abito tipico calabrese viene subito in mente una figura femminile molto cara alla tradizione folkloristica del sud Italia: la pacchiana.
Il termine “pacchiàna”, di probabile derivazione greca, indica la giovane contadina che indossa il vestito tradizionale calabrese, ovvero un costume tipico le cui prime attestazioni documentarie risalgono al XVII secolo e lo descrivono attraverso alcuni elementi inconfondibili, diffusi con qualche variante su tutto il territorio regionale.
La pacchiana indossa l’abito tipico calabrese composto da una lunga gonna decorata in vari colori e un bustino arabescato di velluto nero sotto al quale spunta una camicia bianca con maniche ampie, spesso a tre quarti. Il vestito tradizionale calabrese femminile è completato da una lunga stola che copre il capo e le spalle (elemento in alcuni casi molto prezioso, come i tipici vancàli di Tiriolo, CZ), da un grembiule sovrapposto alla gonna, calzature tradizionali e una serie di gioielli familiari (brillòcchi) che vanno dalle collane alle spille. I capelli sono acconciati in una lunga treccia raccolta sulla nuca.
I costumi calabresi tipici femminili venivano fatti indossare alle giovani in cerca di marito (tra i 15/16 anni) nei giorni di festa.
Successivamente visita chiesa di S. M. Assunta , costruita in stile Barocco dopo l’arrivo degli albanesi con unica navata, un campanile caratteristico e una maestosa cupola e alla Chiesa Basilicale di San Pietro e Paolo, risalente al X secolo in stile bizantino, a tre navate.
Si prosegue per Civita, fra i borghi più belli d’Italia, sorge nel cuore del Parco nazionale del Pollino e della Riserva naturale Gole del Raganello. La vallata in cui sorge è circondata da montagne boscose, dove arrivano i riflessi azzurri del mare Ionio, che s’intravede all’orizzonte.
Immersa in un paesaggio naturalistico unico e vario, Civita è una delle più antiche comunità albanesi (arbëreshë) d’Italia ed è un centro rinomato per la sua architettura e per le sue bellezze naturali.
Nota anche come “il paese del Ponte del Diavolo”, per via del suo antico e caratteristico ponte medievale in pietra che visiteremo con un tour in jeep . Costituisce un’ardita opera di ingegneria e un ottimo posto di osservazione ed è ormai una delle principali attrattive di Civita e simbolo del Parco Nazionale del Pollino. A causa del punto impervio in cui sorge e degli scarsi mezzi di cui si disponeva un tempo, la fantasia popolare ne attribuì la realizzazione al diavolo, a cui era pratica diffusa nell’antichità attribuire l’edificazione delle opere considerate impossibili.
La sua posizione permette una vista spettacolare: dalle sottostanti gole, l’occhio si perde sino alla Piana di Sibari, sul Mar Ionio. Il suo centro storico è un susseguirsi di vicoli, angoli caratteristici e panorami.
Durante la visita sarà possibile ammirare le famose case Kodra, caratteristiche casette dal volto umano così chiamate in memoria dell’artista albanese Ibrahim Kodra. Le casette ubicate in vari rioni dell’abitato sono la testimonianza del tocco post cubista. Le abitazioni sono facilmente riconoscibili dalla grande porta e dal comignolo che funge da naso mentre le finestrelle sono gli occhi. La loro edificazione avvenne tra fine ‘800 ed inizi ‘900 ma altre ancora erano più datate.
Camminando per le viuzze del borgo si possono notare i suggestivi comignoli dalle forme bizzarre e le “case parlanti”. I vicoli stretti del centro storico (le rughe) si dipartono con andamento circolare verso le piazzette, le gjitonie in albanese (termine d’origine greca traducibile con “vicinato”) che collegano i vari nuclei urbani. I vecchi quartieri, con le casette basse, le crepe nei muro e gli anziani seduti davanti alla porta di casa, regalano immagini d’altri tempi. Nei mesi estivi tanti i visitatori attratti dai sentieri del Parco del Pollino e dalla possibilità di praticare sport come il canyoning e il torrentismo all’interno della Riserva naturale Gole del Raganello. Civita (Çifti in arbëreshë) fu fondata nel 1471 da famiglie albanesi in fuga dai turchi sulle rovine di una città preesistente (Castrum Sancti Salvatoris) distrutta da un violento sisma nel 1456. Testimonianza delle culture che hanno attraversato il borgo sono la struttura urbanistica fatta di viuzze e slarghi, e l’architettura religiosa. L’impianto delle chiese è orientale: rivolte verso est, recano i simboli e le forme della teologia bizantina e le funzioni sono celebrate in lingua albanese. Civita è stato tra i primi comuni a istituire lo Sportello Linguistico Comunale per la tutela del patrimonio etno-linguistico. In regioni montuose e lontane dalle comunicazioni si sono conservate intatte la foggia del vestire, gli usi e i costumi insieme alla lingua e alla professione di fede risalenti alle antiche origini albanesi. Alla conservazione della lingua contribuisce enormemente il mantenimento continuo della coscienza storica del sentimento dell’origine albanese. Sotto l’aspetto culturale, l’eredità albanese costituisce una ricchezza considerevole di tesori folclorici, che ancora oggi vengono conservati gelosamente dalla popolazione del borgo. Nel centro storico, oltre alla cappella di Sant’Antonio e a quella cinquecentesca di Santa Maria della Consolazione, è da visitare la chiesa di Santa Maria Assunta, costruita in stile barocco nella seconda metà del XVI secolo, con impianto orientale e simboli della teologia bizantina. Vi si celebra la liturgia bizantina, in quanto gli albanesi d’Italia sono cattolici di rito greco. Nella chiesa, quindi, proliferano le icone al posto delle statue.
I comignoli
I comignoli di Civita, probabilmente datati ad un periodo successivo al 1500, rappresentavano un segno distintivo per ogni casa e assolvevano a diverse funzioni, sia reali che legati alla superstizione. Accanto alla normale operazione di aspirazione del fumo dei camini e alla protezione dai forti venti che si formavano tra i monti del Pollino, i comignoli erano in grado, secondo la simbologia tradizionale, di tenere lontani gli spiriti maligni. Anche per questo motivo erano costruiti in forma strambe e particolari, per distinguersi gli uni dagli altri e legati all’estro del momento e alle condizioni economiche delle famiglie che ne commissionavano la costruzione. Infatti, le famiglie più ricche avevano in uso di fare realizzare comignoli molto elaborati, spesso vere opere d’arte, al contrario delle famiglie meno abbienti, sulle cui case si ergevano comignoli di più semplice fattura.
Passeggiando per il centro storico di Civita non si può non notare la presenza di alcune piccole case dalla struttura antropomorfa. Sono le case Kodra, che devono il loro nome a Ibrahim Kodra, un pittore albanese di fama internazionale che Civita ha voluto ricordare alla sua morte, avvenuta nel 2006, perché queste case “parlanti” e antropomorfe richiamano le linee e le forme della sua pittura. Queste case si presentano, infatti, con una facciata che ricorda un volto umano. La porta d’ingresso posta al piano terra è sovrastata da una canna fumaria esterna, affiancata a sua volta da due piccole finestre perfettamente identiche e simmetriche. Questi elementi così distribuiti rappresentavano, rispettivamente, la bocca, il naso e gli occhi.
Pranzo ristorante tipico “La Kamastra”(cucina arberesh e locale).
La gastronomia locale è naturalmente un connubio tra tradizioni arbëreshë e la cucina tipica del Pollino. La cultura e l’abilità antica, unita a materie prime di qualità e alla presenza sul territorio di numerose erbe aromatiche, offrono piatti ricchi di sapore, come la pasta fatta in casa condita con sugo di capretto; prosciutto e capocollo; formaggio fresco; gnocchetti con ricotta pecorina; fettuccine con funghi porcini e agnello e capretto alla civitese con accompagnamento di vino del Pollino.
Dopo pranzo avrà inizio la rappresentazione folklorica della Valie Arberesh con canti e ballo della tradizione. Il martedì di Pasquinella comunità di Eianina è il giorno della della propria identità linguistica e culturale. È qui che per un giorno all’anno gli arbëreshë d’Italia si ritrovano, nel paese delle Vallje, nel paese dei colori d’Arbëria. In questi giorni sembra che la terra abbia cambiato d’abito e la primavera versato i colori sui costumi delle donne. Donne che, si tengono tra loro tramite un fazzoletto e predisposte a ferro di cavallo alle cui estremità si trovano due o tre uomini detti “caporali”, girano tra le vie del paese intonando canti in lingua albanese che richiamano rapsodie e rievocano la vittoria dell’eroe nazionale albanese Scanderbeg sui Turchi. E’ quasi come se Frascineto ed Eianina in quei giorni si svegliassero in un altro tempo, in altro luogo: i colori del costume tradizionale femminile sono stupendi, ricchi d’oro, impregnati di passato e storia, colmi di ricordi e gioia, indossati con grazia dalle donne del paese, che rammentano la grazia e l’eleganza delle donne del tempo andato.
Le vallje sono eseguite in semicerchio, tenendosi a catena, e si snodano per le vie del paese accompagnate da canti epici che narrano la resistenza contro i turchi, rapsodie, storie d’amore e di morte. Il più famoso di questi canti è il Canto di Scanderbeg del martedì di Pasqua.
A tavola non mancano le inconfondibili Jova di Pasqua del rito orientale, ovvero le Uova di Pasqua colorate di rosso.
La danza della Vallje di Pasqua : La parola vallje significa, in generale, “danza” ma, in realtà nella minoranze etniche calabresi arbëreshë, cioè gli albanesi d’Italia, essa indica la ridda. Questa è l’unica forma di danza arrivata in Calabria che i primi migranti albanesi portarono nelle zone del cosentino ed è l’unica forma di danza conosciuta. La Vallje potrebbe essere confusa con la tarantella calabrese, ma si tratta invece di una ridda che si rifà alle danze della montagna albanese e alla regione montuosa della Rugova sita nella Kossova e dell’Epiro. La Vallja è sicuramente uno degli eventi folkloristici più importanti della tradizione arbëreshë. Attualmente si esegue nella zona del Pollino cosentino ed è effettuata il martedì di Pasqua. La tradizione delle vallje rimanda alla storia dell’Albania e precisamente al condottiero Giorgio Castriota Skanderbeg. Si tratta di un avvenimento storico molto importante per gli arbëreshë: Skanderbeg, alla guida di un piccolo esercito riuscì a sconfiggere le armate turche. L’episodio porta la data del calendario giuliano del 24 aprile 1467, il condottiero riuscì a salvare la città di Kruja dal turco Balabano, proprio il martedì dopo Pasqua e seguì una festa che durò tre giorni. Le donne cantano in lingua arbëreshë i viersh, canti epici e d’amore: delle canzoni nazionali tipiche dell’Albania antica.
I movimenti eseguiti durante la ridda rappresenterebbero la tecnica di accerchiamento messa in atto da Skanderbeg contro l’esercito turco. C’è da notare che la vallja molte volte è composta da soli uomini vestiti in abiti tradizionali; anche essi tratteggiano e ricordano appunto la tattica di combattimento adottata da Skanderbeg per catturare il nemico turco. Questa manifestazione coinvolge tutta la gente del paese e rappresenta il forte senso comunitario arbëreshë. Durante la settimana santa di Pasqua, negli ultimi giorni, per le vie dei borghi arbëreshë è possibile ascoltare il canto delle Kalimere.Si tratta di canti augurali in lingua albanese che raccontano la passione e morte di Cristo.
Circa le 16.30 partenza per Sapri per prendere il treno diretto a Roma in partenza alle ore in aggiornamento .
Arrivo alla stazione di Roma Termini e fine dei servizi.
Per coloro che partono altre destinazioni,proseguimento per per la propia destinazione in treno,o in aereo da Lamezia Terme o aereoporto di Napoli.
Costo per persona in camera doppia euro 630,00
Sup.Singola 60,00
Prenotazioni entro il 15 dicembre con acconto di euro 180,00
Saldo 35 giorni prima della partenza.
La quota comprende
Bus G.T per la durata del tour.
Hotel 3 stelle in mezza pensione bevande incluse ai pasti.
5 pranzi bevande incluse
Guida autorizzata Regione Calabria per intera durata del tour.
Assicurazione medica e bagaglio
ASSICURAZIONE ANNULLAMENTO VIAGGIO
Iva di legge.
Gadget
Accompagnatore dei Viaggi di Giorgio
Non comprende :
Biglietto treno da euro 75,00 soggetto a riconferma
Ingressi pari a euro 16,00
Mance guida,autista e camerieri.
Eventuali tasse di soggiorno da pagare in loco.
NOTIZIE AGGIUNTIVE APPROFONDIMENTI
“Non mi aspetto giustizia dal mondo che ha crocifisso l’amore” (T. Mithrandir)
I riti della Settimana Santa della tradizione regionale calabrese hanno radici secolari. Durante tutta la Settimana, a partire dalla Domenica delle Palme, è un avvicendarsi di manifestazioni religiose e folkloristiche dove il sacro e il profano si susseguono e si accavallano sconfinando da una sfera all’altra lasciando intravedere, in ognuna di esse, le numerose dominazioni e invasioni che si sono succedute nel corso dei secoli, oltre che le varie superstizioni legate a ogni località.
A San Demetrio Corone, la sera del Venerdì Santo si svolge la Via Crucis con la partecipazione in massa di tutti i fedeli, mentre schiere di ragazzi girano per le vie del paese con le “trocke”, tipici strumenti della musica popolare costruite in legno che, in sostituzione del suono delle campane, invitano la gente a partecipare alla processione del Cristo. Nella mattina del Sabato Santo si cantano il Vespro e la Liturgia di S. Basilio e, dopo la lettura dell’Epistola, viene dato in chiesa il preludio della resurrezione di Cristo, simbolicamente sollecitato dal sacerdote a risorgere, mediante il lancio di fiori. In quel momento le campane suonano a gloria, mentre il sacerdote compie il sacro rito alla fine del quale i fedeli si recano nelle fontane a prendere l’acqua benedetta. Dopo la mezzanotte, comitive di giovani, si riversano nelle strade del paese cantando l’inno “Kristos Anesti” (Cristo è risorto) svegliando la gente che dorme. Una tradizione singolare di San Demetrio Corone è la consuetudine tra la notte del Sabato e della Domenica di Pasqua di recarsi, in assoluto silenzio, alla fontana dei monaci, presso il Collegio di Sant’Adriano, per eseguire il rito del “rubare l’acqua”. Il rito riproduce il gesto della Madonna allorquando non potendo lavare il corpo di Gesù perché impedita dalle guardie, si recò, nel silenzio della notte, presso una fontana dove bagnò un panno e così riuscì di nascosto a pulire il corpo del Figlio. Al rito si partecipa a piccoli gruppi che si formano in corrispondenza delle varie “gjitonie”, i vicinati, e che a tarda ora si incamminano verso la fontana. I gruppi procedono rispettando un rigoroso silenzio e resistendo ai molestatori che puntualmente si incontrano lungo la strada, infatti chi ha già bevuto alla fontana è libero dal vincolo del silenzio e si diverte cercando di far parlare chi non l’ha ancora fatto, per questo si vedono le più anziane del gruppo munite di “dokanigje”, lunghi bastoni dall’estremità biforcuta, con l’intento di scoraggiare i tentatori.
Dopo aver bevuto l’acqua del paese si scambiano gli auguri e tra canti e danze si ritorna alla volta del paese.
Il Venerdì è il giorno della Settimana Santa più profondo e ricco di simbolismo e di rappresentazioni tradizionali sacre in tutti i comuni calabresi. Quella sicuramente più suggestiva e maggiormente conosciuta anche oltre i confini regionali, si svolge a Nocera Terinese, piccolo borgo del catanzarese, dove si può assistere allo spettacolo dei “Vattienti” – Battenti, Flagellanti. Qui, i fedeli in processione, scalzi, indossano pantaloncini cortissimi di colore nero per lasciare totalmente scoperte tutte le gambe, sulla testa una corona di spine fatta con asparago selvatico intrecciato, praticano il rito dell’auto-flagellazione. Battono sulle gambe un pezzo di sughero di forma circolare chiamato cardo o rosa dove sono attaccati 13 pezzetti di vetro che entrando in contatto con la pelle, oltre a causare dolore, tagliano facendo fuoriuscire copiosi rivoli di sangue. Sulle ferite viene versato del vino rosso che mescolandosi al sangue crea una visione ancora più straziante. Il numero 13 richiama i dodici apostoli più Gesù, ma non solo, è simbolo di morte, trasformazione e rinascita. Ogni flagellante si accompagna a un personaggio detto “acciomu”- Ecce Homo, che indossa un lungo drappo rosso e regge tra le braccia una croce avvolta, anch’essa, da un tela di colore rosso. Anche l’acciomu è scalzo e ha il capo cinto da una corona di spine.
Il dolore come penitenza ed espiazione, dove il sangue è senza dubbio il protagonista assoluto di questo rituale. Sangue come sacrificio per redimersi dalle colpe, come simbolo che unisce quanti sono accomunati dalla stessa tacita richiesta di intercessione col divino, come voto per ottenere una guarigione o per l’assoluzione dai peccati per un’anima defunta. Ma ancora, quel sangue come vera e propria Via Crucis offerta in dono alla Vergine Maria, affranta dalla morte del suo unico figlio. Il sangue, pur suscitando una sorta di rifiuto del dolore è, contemporaneamente, emblema di quel modello ciclico vita-morte inteso come purificazione e rinascita. “I Vattienti” compiono un atto cruento, doloroso, ancestrale per certi aspetti, ma “spiritualmente necessario”.
Quello dei “Vattienti” non è solo un rito tradizional-popolare legato alle cerimonie pasquali, ma è una vera e propria identità sociale, religiosa e antropologica della comunità di Nocera Terinese. Le prime testimonianze storiche risalgono addirittura agli inizi del 1600 e, nonostante la Chiesa, pare, abbia più volte disposto l’annullamento di tale celebrazione, Nocera Terinese è uno dei pochi comuni calabresi ad averlo mantenuto tanto da essere stato candidato, dalla Regione Calabria e dal Ministero dei Beni Culturali, a divenire Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
Altra manifestazione della tradizione pasquale calabrese è la cosiddetta “Affruntata” o “Cunfrunta”– (Incontro-Confronto), particolarmente presente in molte località delle provincie di Vibo Valentia e di Reggio Calabria. Il rito prevede la processione delle statue di Gesù Risorto, San Giovanni e la Vergine Maria che è vestita di nero in segno di lutto. Le statue vengono più volte avvicinate e allontanate, in alcuni paesi l’incontro viene fatto correndo, per rievocare l’annuncio che San Giovanni fece alla Madonna per comunicarle che Gesù era risorto.
Nella città di Lamezia Terme invece, o meglio nel limitrofo ex comune di Sambiase, molto sentita è la processione dei “Mistìari”, intesi tanto come Misteri Dolorosi quanto come Mestieri. Nelle Chiese dell’Immacolata e dell’Annunziata che sorgono una di fronte all’altra, vengono allestite per l’occasione le 8 statue relative alla Passione di Cristo (Misteri); ogni statua viene portata in processione da persone che appartengono e rappresentano una determinata categoria lavorativa (Mestieri). Ecco quindi che i contadini portano la statua di Gesù nell’orto del Getsemani; Gesù coronato di spine dai parrucchieri; ai muratori spetta Gesù flagellato alla colonna; i falegnami si occupano sia di Gesù che porta la croce che di Gesù crocifisso; le Confraternite delle due parrocchie portano la “varetta” – (la bara) di Gesù morto; le donne che hanno subito dei lutti portano la Madonna Addolorata e infine, gli impiegati si occupano di San Giovanni.
Basta spostarsi di pochi chilometri verso il capoluogo o in alcuni comuni del crotonese, per assistere alla processione della “Naca”- ( dal greco nake-Culla), ovvero una sorta di bara contenente Gesù morto. Processione risalente al 1600 ed è ancora oggi una delle maggiori attrattive tra i riti pasquali catanzaresi. Anche qui, nei tempi antichi, erano i rappresentanti di ogni categoria di lavoratori a portare la “Naca” con una andatura altalenante; oggi invece sono i Vigili del Fuoco che la portano in spalla lungo le strade cittadine. Gli stendardi e le bandiere assegnate alle Confraternite della città capoluogo precedono la naca, mentre le croci penitenziali e la statua della Madonna col cuore trafitto da 7 spade, la seguono. Sette spade, tante quante furono le sofferenze di Maria durante la sua vita terrena: La Profezia di Simeone; La fuga in Egitto; Lo smarrimento di Gesù al Tempio; La salita di Gesù al Calvario; La Crocifissione; La deposizione dalla croce; La sepoltura.
A Serra San Bruno in provincia di Vibo Valentia, si pratica il rito della “Schiovazione”. Il Cristo viene letteralmente liberato dai chiodi, staccato dalla croce e deposto su un letto mortuario per poi essere portato in processione insieme alla Madonna Addolorata, alla Maddalena e a San Giovanni.
A Laino Borgo, in provincia di Cosenza, paese immerso nel Parco Nazionale del Pollino, è molto partecipata “la Giudaica” ovvero la rappresentazione della Passione e della Morte di Gesù che coinvolge per la realizzazione di 19 scene,circa 200 attori in una sorta di teatro itinerante della durata di quasi sei ore con processione finale.
E poi ancora, a Mesoraca, in provincia di Crotone, troviamo la processione dei suoni; a Vazzano in provincia di Vibo Valentia, la fiaccolata; sempre nel vibonese e in alcuni paesi del reggino jonico si svolge “la chiamata della Madonna Addolorata”.
Ciò che accomunava un tempo tutte, o quasi, le località regionali nel giorno del Venerdi Santo erano il silenzio, il digiuno totale o parziale, cui solo i bambini, gli ammalati e le donne in stato di gravidanza erano esenti, e la penitenza. Le donne non si pettinavano né si intrecciavano o legavano i capelli e vestivano di nero in segno di lutto. Era vietato ridere, suonare, cantare. Nessun rintocco di campana e per le strade dei paesi solo il suono sordo e inquietante di uno strumento molto rudimentale chiamato “Tocco”. Non si cucinava e se proprio necessario si consumavano esclusivamente piatti freddi. Solo dopo la Resurrezione di Gesù si riprendevano le normali attività quotidiane e all’avvicinarsi del momento in cui le campane suonavano a festa per annunciare il trionfo della vita sulla morte, era usanza attendere, abbandonando qualunque cosa si stesse facendo, ovunque ci si trovasse, distesi a terra a faccia in giù.
Ovunque ci si sposti, da una provincia a un’altra, da un comune all’altro, che si tratti della costa Jonica o di quella Tirrenica tanto quanto dell’entroterra, tutta la Calabria è ricca di tradizioni culturali e riti religiosi impossibili da raccontare tutti.